Upcycling, recycling, downcycling: "reimpiego migliorativo" nella filiera agroalimentare

07/10/2021

Il cosidetto upcycling, o ‘reimpiego migliorativo’ – una delle ‘parole magiche’ legate a sviluppo sostenibile ed economia circolare – può avere applicazioni importanti anche nella filiera agroalimentare, oltreché in altri settori produttivi. 

Il concetto di ‘recupero’ dei materiali è tradizionalmente associato a quello del riciclo. Che si trova al terzo posto nella scala di Lansink, dopo la ‘riduzione’ e il ‘riutilizzo’, nella gerarchia degli impieghi. Un’analisi più precisa permette di distinguere tre ipotesi di recupero, in relazione ai processi ove i materiali vengono reimpiegati:

1) upcycling. Il materiale di recupero viene ‘elevato’ a una categoria produttiva di rango superiore (per valore intrinseco e/o valore aggiunto) rispetto a quella originaria, o comunque rispetto alla destinazione usuale. (2) Dai sottoprodotti di lavorazione dell’ortofrutta, a esempio, possono venire estratti fitocomposti o realizzati antimicrobici e per usi alimentari, officinali e farmaceutici),

2) recycling. In questo caso, i materiali vengono impiegati nello stesso comparto produttivo o comunque assolvere a identica funzione. Alcuni esempi: le carni separate meccanicamente (dai residui della macellazione) mantengono un destino alimentare, anziché mangimistico; i piatti invenduti a fine giornata possono venire consegnati a buon prezzo all’ora di chiusura (es. Too Good to Go) o a organizzazioni caritatevoli (es. Banco Alimentare) le quali raccolgono anche prodotti in scadenza per distribuirli ai bisognosi,

3) downcycling. Le ipotesi più radicate e usuali attengono invece al reimpiego degli scarti di lavorazione e dei resi (es. invenduti e non-conformità compatibili agli usi subordinati) in produzioni a minore valore aggiunto. Siano esse complementari – es. dagli alimenti ai mangimi – o diverse. Come le fibre di canapa usate in bioedilizia e bioplastiche.

 

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