Coronavirus: quando e come l’infezione si ripercuote dagli animali all’uomo

18/03/2020

I virologi lo chiamano «spillover» quando un virus animale «tracima» nell’uomo diventando in tutto e per tutto un virus umano.

Un virus per infettarci deve adattarsi alle condizioni presenti nel nostro organismo, che sono molto diverse da quelle presenti in un animale. Questo adattamento è necessario sin dal primo passaggio di un’infezione virale, ovvero la penetrazione del virus all’interno di una cellula. Per far questo, il virus deve avere una «chiave giusta», che gli permetta di «aprire la porta» di una cellula umana. Non esistono passe-partout. Ogni virus ha una chiave specifica che solitamente apre un numero molto limitato di porte. In parole più semplici, il virus che infetta un animale quasi mai è in grado di infettare l’uomo perché le serrature delle cellule umane sono ben diverse da quelle presenti nelle cellule dei vari animali. A volte, però, alcuni virus hanno chiavi «simili». Non perfette per le serrature delle nostre cellule, ma in grado, magari con un po’ di sforzo, di aprirne le porte. Queste pericolosissime chiavi «simili» le hanno certamente i coronavirus, visto che negli ultimi 20 anni coronavirus animali sono riusciti a forzare le serrature delle nostre cellule infettando l’uomo, causando due fra le peggiori epidemie recenti: la Sars e la Mers. Quella in corso è la terza. Per diffondersi tra gli uomini e causare un’epidemia non è però sufficiente il passaggio da animale a uomo e la capacità di replicarsi all’interno del corpo umano, evento già di per sé molto raro. È indispensabile che il virus acquisti la capacità di trasmettersi da un uomo a un altro essere umano. Anche questo è un evento raro: quasi sempre quando un virus riesce a «forzare» la porta delle cellule umane riesce a replicarsi e non di rado a uccidere il paziente, ma ben di rado arriva a raggiungere una efficienza replicativa tale da consentirgli di uscire dal primo individuo infettato e passare ad un altro.

Il problema è che alcuni virus, fra cui i coronavirus, sono in grado di adattare geneticamente la propria chiave, di «limarla», rendendo sempre più fluida, sempre più efficace, l’apertura della porta delle cellule umane. Tanto più un virus si replica, tanto più riesce a mutare la sua «chiave» rendendola perfetta per entrare nelle cellule umane. Per questo le epidemie partono dove queste occasioni di sconfinamento animale-uomo sono frequenti. A ogni infezione da animale a uomo il virus ha la possibilità di fare un lancio di dadi e di sperare in un risultato favorevole. Tanto maggiore il numero dei lanci, tanto maggiore la probabilità di vincere. Dei perdenti non resterà traccia, chi ce la fa diventa un virus umano.

Per fortuna a quel punto il virus continuerà ad evolvere. Si adatterà sempre meglio al suo nuovo ospite e diventerà sempre più «compatibile» con la specie che ne garantisce la sopravvivenza, perché un virus senza ospite è un virus che non esiste più. Questo significa che, fortunatamente, il virus continuandosi a replicare in una specie si adatta ad essa (e viceversa) garantendo una convivenza più pacifica tra virus e ospite. In altre parole, con il tempo diventerà «più buono».

 

(testo di Roberto Burioni, ordinario di Microbiologia e Virologia, Università Vita Salute San Raffaele, Milano)