Esportazioni: i paesi asiatici le sospendono per proteggere i consumatori nazionali
Dal primo giugno, Nuova Delhi consente alle imprese locali di esportare zucchero solo dietro permesso ufficiale del governo. La misura è stata adottata per «mantenere la disponibilità interna e la stabilità dei prezzi dello zucchero» e secondo quanto previsto resterà in vigore fino al 31 ottobre, ha dichiarato il governo indiano lo scorso 24 maggio. Non è cosa da poco se si considera che l’India nel 2020 è stata il secondo maggiore produttore mondiale di zucchero appena dopo il Brasile e il primo esportatore di zucchero raffinato, secondo i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO).
Allo stesso modo, la Malesia, sempre dal primo giugno, ha tagliato le esportazioni di pollame con lo scopo di frenare la corsa dei prezzi e soddisfare la domanda interna.
L’Indonesia, invece, aveva interrotto le esportazioni di olio di palma ad aprile, sebbene a maggio abbia fatto marcia indietro.
Tutto questo accade mentre l’inflazione globale accelera. L’indice dei prezzi alimentari di riferimento della FAO, relativo a carne, latticini, cereali, oli vegetali e zucchero, ha raggiunto quota 158,5 lo scorso aprile, segnando un aumento del 30% rispetto all’anno precedente. Un aumento dovuto alle interruzioni della fornitura e della logistica causate dalla guerra in Ucraina e dalla pandemia.
Chi sta pagando il prezzo più alto del nazionalismo alimentare per adesso è Singapore, dove una pietanza ordinaria a base di riso e pollo è diventata nella pratica un vero lusso. La piccola città stato importa quasi il 90% del cibo che consuma e almeno un terzo del pollo importato arriva dalla vicina Malesia, l’equivalente di 3,6 milioni di polli al mese.