"Ci mancava la peste suina africana"

19/01/2022

Ormai da due anni la nostra vita è scandita da informazioni sui virus, a causa della pandemia siamo bombardati da notizie su varianti, contagiosità e letalità. SARS-COV-2 certo è un virus che sta prendendo tutte le attenzioni mediatiche, a causa degli evidenti drammatici impatti sulle nostre vite. Molto più subdolo e meno sotto ai riflettori, per lo meno dei media nazionali, è invece un altro virus che malauguratamente ha fatto il suo ingresso nel nostro Paese: si tratta del virus responsabile della Peste Suina Africana (PSA), genotipo II, la cui presenza è stata registrata lo scorso 6 gennaio per la prima volta con il ritrovamento, nel comune di Ovada, in provincia di Alessandria, di una carcassa di cinghiale positiva al virus.

Il virus responsabile della PSA è un virus a DNA appartenente alla famiglia degli Asfarviridae, ed è responsabile di una febbre emorragica con un elevato tasso di letalità nei suini (sia maiali domestici che cinghiali). Non si tratta di una zoonosi, quindi non è trasmissibile alle persone, né ad altre specie animali, è specifica dei suini, ma ha sicuramente un importante impatto sulle attività umane perché a causa della sua devastante contagiosità e pericolosità è in grado di provocare ingentissimi danni economici a carico del settore suinicolo, oltre a limitazioni e ricadute di natura commerciale. 

I primi sintomi della malattia si manifestano dopo circa quattro giorni dal contagio. La peste suina africana provoca febbre alta, edema polmonare, gastrite emorragica, vomito e diarrea, linfonodi ingrossati e edematosi, epistassi, lesioni sottocutanee. Come risultato, gli animali malati fanno fatica a respirare, tendono a non alimentarsi, hanno difficoltà nel compiere movimenti coordinati (atassia), sono disorientati e letargici. Tra il 95 e il 100% di chi si infetta è destinato a morire. Ma non è solo la severità dei sintomi e la contagiosità che rende il virus della PSA così temibile. È anche, forse soprattutto, la sua incredibile resistenza ambientale. Il virus rimane infatti quiescente al di fuori di un ospite, può resistere fino a 15 settimane a temperatura ambiente, mesi a 4°C e indefinitamente nelle carni surgelate. Poiché servono altissime temperature tenute a lungo per neutralizzare il virus, gli insaccati fatti da carni infette sono anch’essi fonti di infezione virale per i suini. Il virus resiste su diversi substrati: coltelli, vestiti, scarti di cucina contaminati, terreno e anche vegetali contaminati dalla saliva di animali infetti.

Le carcasse dei cinghiali morti a causa della malattia sono un enorme serbatoio virale pronto a infettare qualche malcapitato suide che si avventuri a perlustrarle; non è ancora molto chiaro invece il ruolo dei necrofagi che si cibano delle carcasse infette, in parte possono agire da trasportatori del virus, attraverso zampe e pelo, in parte possono contribuire all'eliminazione delle carcasse dall'ambiente, consumandole ed essendo immuni all'infezione. Infatti la trasmissione del virus può avvenire sia per contatto diretto con gli ammalati, sia in maniera indiretta, attraverso un ambiente contaminato per la presenza di carcasse o resti di animali infetti, feci e liquidi corporei, o nel caso soprattutto degli allevamenti, oggetti contaminati. Ma il più subdolo mezzo di propagazione del virus è la contaminazione: aderendo a vestiti, oggetti, alle suole di stivali e scarponi, o ancor peggio alla superficie degli pneumatici, consente al virus di essere trasportato su lunghe, a volte lunghissime distanze, alla ricerca di nuovi suini in cui proliferare. E infatti qui entra in scena la presenza umana: è grazie a questi meccanismi che il virus è in grado di viaggiare e raggiungere luoghi sicuramente non raggiungibili “a bordo” di un cinghiale.

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