Wet Market: si continua a lavorare a livello internazionale per arrivare a un trattato globale

12/03/2022

Fin dalle prime settimane di pandemia, uno degli obiettivi indicati più volte dalle autorità sanitarie di diversi paesi e da organismi internazionali per prevenire nuove epidemie è l’abolizione o la regolamentazione della vendita di carni di animali selvatici, così come quella dei mercati in cui si attua la macellazione dal vivo, i cosiddetti wet market, sospettati di essere l’origine della pandemia di coronavirus.

Da allora, in realtà, non è successo molto, ma nei prossimi mesi ci potrebbero essere novità. Come rivela un’esclusiva della Reuters, una commissione, voluta dall’Unione europea, sta lavorando sul tema, con lo scopo di giungere a un trattato globale da sottoscrivere nel 2024, e la speranza di arrivare a un accordo preliminare entro il prossimo agosto.

Due i pilastri sui quali si dovrebbe appoggiare: la progressiva chiusura o comunque la forte regolamentazione dei wet market e l’obbligo di segnalare qualunque virus potenzialmente pericoloso, con incentivi per i paesi che lo rispettano.

Quest’ultimo aspetto, in tutta evidenza, tiene conto di quanto successo con il Sudafrica, immediatamente ‘punito’ per aver segnalato la presenza della variante Omicron di Sars-CoV-2 con limitazioni ai voli e altre misure restrittive: un precedente che – questo il timore – potrebbe spingere altri paesi a non comunicare eventuali virus o varianti emergenti. Per questo ora si sta ragionando su misure quali l’accesso preferenziale e immediato a farmaci, vaccini e materiali sanitari per paesi a basso reddito che denuncino la presenza di microrganismi pericolosi. La discussione è presieduta da: Egitto, Giappone, Tailandia, Sudafrica, Brasile e, in rappresentanza dell’Europa, Paesi Bassi. Tuttavia, mentre l’Unione Europea preme per un accordo globale vincolante, il paese sudamericano, che rappresenta il continente americano (del nord e del sud), è contrario a impegni di questo tipo.

Questa operazione parte da un’idea di fondo: quella di modificare abitudini molto radicate, a volte millenarie, ma oggi considerate pericolose.

Quasi in un dialogo a distanza, un articolo degli antropologi ed ecologi sociali dell’Università di Yale, pubblicato su Environmental Research Letters, invita a considerare tutta la questione della cosiddetta bushmeat, la carne di animali selvatici venduta nei wet market e non solo, in modo molto più aperto, tenendo conto del punto di vista dei milioni di persone che dovrebbero affrontare cambiamenti molto rilevanti. In particolare, gli autori si focalizzano su tre parametri che, a loro giudizio, dovrebbero essere tenuti in considerazione: il punto di vista locale rispetto a quello globale; le preferenze e le pratiche alimentari del mondo occidentale rispetto a quelle di altri paesi; il ruolo dei cacciatori rurali rispetto a quello dei consumatori urbani.

 

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